Ma prima ancora qualche considerazione preliminare. Già nel Fedone (74a-76a), Platone aveva sostenuto che l'uguale in sé è un'idea che precede gli esempi concreti di cose che si possono dire uguali tra loro, in quanto, a rigore, sarebbe meglio parlare di cose simili, non potendo due cose essere in tutto e per tutto perfettamente uguali tra loro (proprio perché si tratta di due cose e non di una soltanto). Secoli dopo, Leibniz enuncia il principio degli indiscernibili, per il quale se due cose sono uguali in tutto e per tutto allora sono in effetti una cosa sola (Monadologia I, 9). E sull'insensatezza di una proposizione che afferma che due cose sono identitiche tra loro, ritorna anche il filosofo austriaco del Novecento L. Wittgenstein (Tractatus logico-philosophicus 5.5303).
Ma ciò che vogliamo qui sostenere è che, al di là delle aporie enunciate nel principio di identità (A=A), l'identità (o se preferiamo, il Sé), più che un'uguaglianza formale indica la relazione primaria che ogni ente intrattiene in primo luogo con se stesso, prima che con altro o altri.
Detto in altre parole, quale rapporto con se stesso (la propria identità) intrattiene dott. Jekill-e-Mr. Hide? Per il tribunale, interessato ad individuare il responsabile degli efferati omicidi, si tratta solo di stabilire l'uguaglianza tra le due persone (dott. Jekill = Mr. Hide). Ma lo "strano caso" della persona in questione indica qualcosa di più complesso, tocca da vicino la stretta relazione intrapersonale che quell'uomo intrattiene con se stesso e la sua interna dissociazione.
Ma veniamo ad Heidegger. Anche per il filosofo tedesco il tema dell'identità non è interamente ricondubile alla mera uguaglianza formale enunciata nel celebre principio di identità (A=A). Per la seconda sono necessari due termini (A = A), per la prima ne basta uno soltanto (A è), «giacché» - scrive l'autore - «mentre nell’uguale la diversità svanisce, nello stesso la diversità appare» (M. Heidegger, Identità e differenza, 1957). «La formula A = A parla di uguaglianza. Essa non nomina la A come la stessa cosa. La formula corrente per il principio di identità nasconde in questo modo proprio ciò che il principio vorrebbe dire: A è A, ossia ogni A è essa stessa la stessa cosa»[1]. L’identità staglia la cosa stessa nella sua differenza come quella che può esservi tra la goccia d’acqua del mare nel mare dell’essere cui coappartiene (è il tema heideggeriano della “differenza ontologica” tra essere ed ente)[2].
L’uguaglianza fa sparire ciò che l’identità mostra, «ossia ogni A è essa stessa la stessa cosa». La questione centrale dell’identità è quindi la relazionalità. In primo luogo, si tratta della relazione intima che ogni A intrattiene con se stesso prima che con altri (o Altro). In questa relazione intima ogni ente coappartiene ad un campo più vasto, è in relazione con l’intero Essere. Si tratta di pensare il salto tra ente ed essere nella loro essenziale co-appartenenza (non è l’uno che fonda l’altro, ma la loro coessenziale relazione decide di entrambi).
Ma un certo stile del pensiero ci fa ostacolo. È il pensiero rappresentazionale, la cui struttura linguistica è basata sulla coppia distinta e separata di Soggetto/Oggetto. L’intera modernità (modernità intesa non solo in termini storiografici, come età moderna, ma intesa in senso lato, come modalità dell’umano che tende a legittimare la propria assoluta centralità, ponendosi in una posizione di dominio rispetto agli altri enti), giunge così al trionfo della manipolazione tecnologica del mondo e dell’uomo ridotto a “cosa”, quale esito finale dell’oblio dell’Essere. Nessun ente realizza da solo l’intero Essere, eppure l’intero Essere trova espressione nei limiti del singolo ente. Questa la differenza nella coappartenenza.
Non si tratta di pensare la differenza nel segno del pensiero pensato come per esempio in Platone (ogni cosa per essere se stessa non è un’altra cosa) o in Hegel (dire A = A significa, in realtà, ri-affermare A in relazione a non-A, dopo aver detto che posso pensare A solo in quanto vi è non-A, per cui pensare A significa riaffermarlo per la seconda volta dopo aver negato non-A, in quanto A è non non-A). Nei termini del pensiero rappresentazionale ci troviamo subito indotti a concepire la differenza come una relazione che il nostro rappresentare ha aggiunto sia all’essere che all’ente. È così che la differenza (Differenz) viene ridotta a una distinzione (Distinktion), cioè a un artificio del nostro intelletto (Heidegger).
L’identità è un’intima relazione che ogni essere ha con se stesso (il sé), e in tale relazione scopre se stessa non solo in relazione ad altri (se stessi), ma prima ancora nella Differenza (ontologica) in relazione ad un’originaria coappartenenza all’Indivisibilità dell’Essere, un’indivisibilità nel segno della Differenza, ossia infinitamente ricca di infinite possibilità infinite, nel segno delle Diversità. Tutto ciò non va rappresentato (dal punto di vista di un Soggetto che op-pone e rap-presenta dinanzi a sé un Oggetto), ma va ascoltato nelle forme di una pratica meditativa di pensiero per la quale Heidegger parla di Gelassenheit (una modalità del nostro essere attenta e rilassata, ricettiva ma anche attivamente centrata).
Se dovessimo esprimerci nel linguaggio della meccanica quantistica, potremmo parlare di un rapporto di coappartenenza tra particella e campo, che getta insieme identità e differenza (in un certo senso la particella è il campo nell’istante del collasso della funzione d’onda, ma si dà il salto quantico, per cui anche altre possibili configurazioni erano possibili. In tal senso, nessuna particella esaurisce le infinite possibilità del campo, anche se, ripetiamolo, in quell’istante il campo si dà nei limiti di quella particella). Tale coappartenenza di Identità-Differenza implica quindi il fattore tempo, il movimento, il movimento inteso in senso topologico, ossia non un movimento in uno spazio già dato, ma un movimento che dà luogo ad un luogo (come il darsi luogo del luogo che nella meccanica quantistica avviene in occasione del collasso della funzione d’onda, per cui con la particella si concreta l’intero campo in un certo istante). Pertanto, l’emergere della differenza ontologica (ente/essere, essere/ente; ente-essere, essere-ente) va approcciata nei termini dell’Ereignis (altre parole per indicarlo sono Evento, Logos, Tao), del nostro accadere, per cui eveniamo, in un mare di possibilità.
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Nel corso del Novecento, il contributo heideggeriano al tema dell’identità è consistito nell’aver considerato l’identità per il suo carattere mediato, ponendo al centro della nozione la relazionalità, intesa innanzitutto come relazione che ogni ente ha con se stesso, relazione abitata dalla differenza, relazione di sintesi interna mai compiuta tra ente ed essere, in quanto nessun ente esaurisce completamente le infinite possibilità dell’essere, eppure l’essere si esprime per intero anche grazie a quel determinato ente. Successivamente, nel dibattito sociologico o politico-antropologico si è invece tornati ad esteriorizzare la nozione, come relazione plurale tra identità collettive ciascuna in sé autoconsistente, pensando alle identità come insiemi di sostanziati attributi costanti (culture, tradizioni, leggi ecc.), riconducendo il problema al tradizionale rapporto Uno-Molti (dove i Molti sono equivalenti a molti Uno). Habermas, per es., ha cercato di coniugare l’impostazione pluralistica con le istanze universalistiche (cfr. L’inclusione dell’altro). Di fronte alla domanda provocatoria: è possibile parlare di un’unica umanità? si è ricondotto il rapporto identità/differenza alla tensione Uno/Molti, passando così dalla Differenza pensata in chiave heideggeriana (rapporto intimo di coappartenza reciproca dell’ente all’essere, sia in chiave intrapersonale sia interpersonale) al sistema delle differenze inteso come insieme di relazioni esteriorizzate e fattuali tra diverse identità, sistema di differenze che comporta l’esplosione della pluralità delle identità (Molti Uno), sia in chiave intrapersonale che interpersonale.
[1] «La formula più appropriata per il principio di identità, allora, A è A, non dice soltanto: ogni A è essa stessa se stessa, dice piuttosto: con se stessa ogni A è essa stessa se stessa. Nell'identità [Selbigkeit] risiede la relazione propria del “con”, dunque una mediazione, un collegamento, una sintesi: l'unione in direzione di un'unità. È per questo che l'identità nel corso della storia del pensiero occidentale appare con il carattere dell'unità. Questa unità, però, non è affatto l'inane vacuità di ciò che, in se stesso privo di relazioni, si irrigidisce ostinatamente in un'uniformità» (M. Heidegger, Identità e differenza). Ecco qui Heidegger tentare di pensare l’indivisibilità dell’essere in modo aperto come possibilità della diversità, sottraendo l’indivisibilità dal dominio dell’Uno totalitario omogeneo e indifferenziato.
[2] «…la formula “A è A”. Che cosa cogliamo ascoltando? In questo “è” il principio dice il modo in cui l'essente è, ossia: esso stesso con se stesso lo stesso. Il principio di identità parla dell'essere dell'essente» (op.cit., ivi).
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