Questo post nasce da una serie di riflessioni in risposta ad un commento (che vi invito a leggere, vedi post del 5/12/2014 sulla citazione di Hofstadter utilizzata da Remotti a conclusione del suo scritto) di Giada, una studentessa laureanda in filosofia presso l’Università di Firenze.
Colgo quindi l’occasione per dire che, pur condividendo molti aspetti espressi nello scritto di F.Remotti (vedi post iniziale del nostro blog), non sono del tutto d’accordo con la conclusiva liquidazione della questione dell’identità, che si basa sulla centralità e attualità della posizione humiana (l’identità personale come «fascio di impressioni» — che Remotti ripropone, giungendo a dissolvere l’identità all’interno di “fasci di relazioni” a geometria variabile),
Consideriamo il punto di vista di Cartesio e Hume. Nella prospettiva cartesiana, l’identità del cogito tende a presentarsi come sguardo disincarnato, che deve faticare non poco a ritrovare i suoi nessi con la corporeità (la difficile coesistenza di res cogitans e res extensa, mente cosciente-pensante e corpo esteso). Nella prospettiva humiana, invece, il tentativo di derivare il pensiero dalla pentasensorialità ordinaria comporta una perdita dello sguardo dell’osservatore. Come dire, dopo aver letto la prima e la seconda Meditazione Metafisica, l’impressione che ne ricaviamo è quella di un mondo ridotto a rappresentazione teatrale dove l’unica certezza è quella dell’esistenza di uno spettatore (il soggetto), un osservatore che il cogito riduce a puro sguardo disincarnato. Ebbene con Hume non solo il mondo è teatro, ma è l’identità stessa dell’osservatore ad essere, né più né meno, che un «teatro di immagini». In altre parole, il processo di dissolvimento della “sostanzialità” del mondo e dell’identità di tutte le cose, è andato avanti. Il mondo è solo un insieme di sensazioni (o rappresentazione, direbbe Schopenhauer) collegabile allo sguardo di un osservatore che, al limite, non esiste (almeno non come sostanza stabile), in quanto la sua presunta identità altro non è che una collezione di immagini tenute insieme dall’immaginazione e dalla memoria.
Cercando di andare oltre Cartesio e Hume, la filosofia occidentale ha provato a reagire recuperando la centralità dello sguardo dell’osservatore, evitando che la sua presenza si appiattisca sulla scena della sua visione. In tal senso, è possibile rileggere la funzione kantiana dell’“Io penso” sempre presente al centro della scena fenomenica dell’esperienza, o l’intenzionalità della coscienza quale base di partenza per ogni indagine filosofica praticabile in maniera “rigorosa”, secondo la prospettiva fenomenologica di Husserl. Quest’onda lunga equivale ad una risposta alla provocazione di Hume e a un ritorno a Cartesio (anche se in forme più sofisticate). Un invito, insomma, a non confondere lo sguardo dell’osservatore con la scena osservata, per non perdere di vista nessuno dei due, osservatore e osservato, soggetto e oggetto, ma soprattutto un invito a non fare del “soggetto osservatore” una “cosa”, in quando lo “sguardo” sul mondo che noi siamo non è un “oggetto” tra gli altri, per cui non va “sostanzializzato”, sarebbe un errore farlo (in ciò Kant e Husserl sono d’accordo e correggono l’idea di res cogitans di Cartesio, pur ritornando, in qualche modo, a Cartesio). Per cui, viene a cadere con questo la critica stessa fatta da Hume all’io inteso come cosa, come sostanza. Ma se torniamo alla questione dell’identità, il recupero della centralità dello sguardo osservatore non migliora di molto la situazione, per via della sua insostanziale, immateriale disincarnazione. Mi fermo qui, interrompendo un discorso, che seppure incompleto ci permette intanto di evidenziare quanto segue:
- Nella storia della filosofia occidentale i concetti di “identità” e di “sostanza” appaiono spesso strettamente intrecciati tra loro. È inevitabile allora che il processo di desostanzializzazione ancora in atto (dell’io, del mondo, di tutto; insomma, la questione del virtuale) trascini con sé le due cose. Ne emerge un elogio della mutevolezza delle cose e del mutamento (Eraclito), che lascia tuttavia aperta la questione di ciò che permane nel mutamento (Aristotele).
- Il recupero dell’identità come sguardo disincarnato (mente, anima, coscienza, psiche) spesso inciampa sulla questione della corporeità, non tenuta sempre in dovuto conto. Le strategie di risposta elaborate oscillano tra un monismo spesso riduzionista (riduzione della psiche a materia, o di tutto ciò che è materiale al mentale) e il dualismo, rischiando una rimozione completa del problema.
- Altro modo di declinare la questione dell’identità è quello che si richiama al rapporto Uno-Molti, che mi limito qui ad accennare. È meglio parlare di identità al singolare o al plurale? Le cose non vanno diversamente se decliniamo la questione in chiave collettiva, parlando di identità nazionale, europea o altro, questione resa ancora più complessa nello scenario omologante della globalizzazione. Anche qui ritroviamo le stesse tendenze viste sopra. Si pensi, per esempio, all’ambiguità di fondo presente nell’idea di nazione elaborata tra il ‘700 e l’ ‘800. Per Herder, la nazione è una sostanza definibile a priori, in chiave genetica, un fatto naturale e organicistico che fonde in sé diversi individui in nome di un comune senso di appartenenza. Per Rousseau, invece, tale senso comune di appartenenza (il popolo, la nazione intesa come Moi commun) è un’ideale tutto da costruire, su basi democratico-consensuali, frutto di un «plebiscito quotidiano» (E. Renan). Insomma, la nazione è una sostanza a priori di cui non resta che prendere coscienza (Herder) o una costruzione a posteriori humianamente basata sull’abitudine consolidata di una comune esperienza condivisa (Rousseau)? Allo stesso modo è possibile osservare come spesso nella declinazione filosofica dell’identità in chiave collettiva si passa da una prima persona (l’Io) ad una terza persona spesso impersonale (lo Spirito oggettivo, direbbe Hegel), che tende a riprodurre le stesse dinamiche che abbiamo visto a proposito dell’Io come sguardo disincarnato sul/nel mondo.
Qual è allora la mia proposta? Io direi, innanzitutto di distinguere tra identità e identificazione. Per cui preferirei parlare dell’ossessione dell’identitarismo, piuttosto che dell’ossessione dell’identità, come fa Remotti. Condivido pertanto le sue considerazioni critiche sulla retorica dei discorsi ideologici sull’identità, centrati sul bisogno-problema dell’identificazione “a tutti i costi”, sulla fissazione di un modello unico di noi stessi, degli altri, del mondo. Ma preferisco parlare di identitarismo. Per me, l’identità è un’altra cosa. In tal senso, l’identitarismo esprimerebbe un aspetto patologico dei processi base dell’identità (l’identità come processo aperto, non come sostanza chiusa e definita a priori), a descrivere i quali varrebbero mirabilmente le pagine del Ritratto di Dorian Gray di O. Wilde.
Ma a voler considerare l’identità come enticità, l’identità come relazione primaria di noi stessi con noi stessi (il Sé) prima che con gli altri, gettata nella progettualità aperta del nostro Esserci (Heidegger), non penso che bastino da sole le considerazioni di Hume. Il problema vero consiste nell’allargare i nostri campi di osservazione, mentre Hume si limita alla sensorialità ordinaria dei cinque sensi, la cui apparente “naturalità” può nascondere molta più convenzionalità” di quanto sembri a prima vista (in tal senso, l’approccio fenomenologico di Husserl propone di mettere tra parentesi l’ovvietà dell’ “atteggiamento naturale”, per ritrovare quella rinnovata freschezza originaria di uno sguardo primario su noi stessi e sulle cose).
L’«Io non è padrone a casa sua», sostiene Freud, inserendo la questione del Sé nelle complesse dinamiche dei rapporti psichici conscio-inconscio. Da qui discende per forza che l’Io è soltanto un «poema senza autore», come dice Hofstadter? Sebbene ciò sia talvolta vero, e dobbiamo tenerne conto, ritengo si debba considerare una situazione più complessa in cui assumiamo diversi ruoli in relazione a noi stessi e agli altri, ora come autori o registi, ora come protagonisti o come osservatori esterni in qualità di testimoni (talvolta queste posizioni accadono anche simultaneamente). In altre parole, sostenere che «l’Io non è padrone» significa sì assumere un atteggiamento prudente e ironico nei confronti dell’autoralità delle nostre azioni, ma non per forza dobbiamo rinunciarvi del tutto. Anziché un problema dovremmo abituarci a considerare ciò come una risorsa. Solo una crisi di nervi ci porta a cedere ad eccessive semplificazioni. La possibilità di queste diverse posizioni e metaposizioni di noi stessi in relazione a noi stessi e agli altri mostra la centralità delle relazioni intra- e inter-personali con gli altri, nelle quali nasce, si genera e trasmuta continuamente l’identità, il volto delle cose, segnate dalla propria storia e gravido di possibilità ancora inespresse. La prospettiva giusta è quindi quella dell’interpersonalità (ma anche dell’intrapersonalità), di cui anche le neuroscienze o le tecniche della PNL (programmazione neurolinguistica) tengono conto.
Riconsideriamo allora la questione della relazione che ogni identità intrattiene con ogni altra identità. Al termine del suo scritto, Remotti ci propone l’immagine della rete. Il nodo non c’è prima della rete. Il collocarsi del nodo-identità è dato solo in virtù del suo essere punto di intersezione della rete. Ma non sono d’accordo nel considerare ogni nodo come un centro vuoto (così come sostiene Remotti), altrimenti la rete darebbe come prodotto finale zero, un omologante indifferenziazione uno-totalitaria, proprio come avviene negli attuali processi di globalizzazione in atto. Certo il nodo non c’è prima o a prescindere dalla rete, né è qualcosa di chiuso e definito una volta per sempre (sostanza a priori). Ma il nodo è pieno, non è vuoto. O meglio può sembrare vuoto solo perché sta sempre nascendo, è apertura originaria di possibili possibilità di infinite infinità. Remotti parla di «persona dividuale»: la divisibilità della persona dovrebbe essere posta a garanzia della sua apertura relazionale, al posto di una sua (presunta) univoca chiusura sostanziale. Ma se ogni nodo della rete vale zero, vi è il rischio che l’unica identità anonima che resta sia quella rete, e l’immagine dell’indivisibile rete indifferenziata è proprio l’esito di ogni relazionismo filosofico che muove da tali premesse come anche del pensiero a senso unico della globalizzazione.
Affinché si giunga a considerare il nodo dell’identità aperto nella sua relazionalità, senza con ciò rinunciare alla sua enticità (ossia il suo non essere nulla), è quindi opportuno riconsiderare il carattere autorale di ogni centro da cui irradia ogni forma di vita. Questo significa vedere l’identità come possibilità del costituirsi di centri “autoriali” (per rispondere alla citazione finale che si richiama a Hofstadter). Si tratta di un’autoralità che s’accresce di sé (nel significato pregnante del verbo latino augeo, che indica l’idea di un crescere continuo), accrescendo di continuo anche quel poema cosmico attraverso cui prende corpo e tempo-narrazione l’esistente. Occorre quindi che in ogni parte dell’essere, ogni parte dell’essere (sia essa persona o gruppo, popolo-nazione o continente, creatura naturale anche non umana) coltivi una relazione intima con se stessa prima che con altro o altri, e in questa intima relazione scopri in chiave generativa la possibilità sempre aperta e vitale della propria identità come processo dinamico intra- e inter-personale.
Colgo quindi l’occasione per dire che, pur condividendo molti aspetti espressi nello scritto di F.Remotti (vedi post iniziale del nostro blog), non sono del tutto d’accordo con la conclusiva liquidazione della questione dell’identità, che si basa sulla centralità e attualità della posizione humiana (l’identità personale come «fascio di impressioni» — che Remotti ripropone, giungendo a dissolvere l’identità all’interno di “fasci di relazioni” a geometria variabile),
Consideriamo il punto di vista di Cartesio e Hume. Nella prospettiva cartesiana, l’identità del cogito tende a presentarsi come sguardo disincarnato, che deve faticare non poco a ritrovare i suoi nessi con la corporeità (la difficile coesistenza di res cogitans e res extensa, mente cosciente-pensante e corpo esteso). Nella prospettiva humiana, invece, il tentativo di derivare il pensiero dalla pentasensorialità ordinaria comporta una perdita dello sguardo dell’osservatore. Come dire, dopo aver letto la prima e la seconda Meditazione Metafisica, l’impressione che ne ricaviamo è quella di un mondo ridotto a rappresentazione teatrale dove l’unica certezza è quella dell’esistenza di uno spettatore (il soggetto), un osservatore che il cogito riduce a puro sguardo disincarnato. Ebbene con Hume non solo il mondo è teatro, ma è l’identità stessa dell’osservatore ad essere, né più né meno, che un «teatro di immagini». In altre parole, il processo di dissolvimento della “sostanzialità” del mondo e dell’identità di tutte le cose, è andato avanti. Il mondo è solo un insieme di sensazioni (o rappresentazione, direbbe Schopenhauer) collegabile allo sguardo di un osservatore che, al limite, non esiste (almeno non come sostanza stabile), in quanto la sua presunta identità altro non è che una collezione di immagini tenute insieme dall’immaginazione e dalla memoria.
Cercando di andare oltre Cartesio e Hume, la filosofia occidentale ha provato a reagire recuperando la centralità dello sguardo dell’osservatore, evitando che la sua presenza si appiattisca sulla scena della sua visione. In tal senso, è possibile rileggere la funzione kantiana dell’“Io penso” sempre presente al centro della scena fenomenica dell’esperienza, o l’intenzionalità della coscienza quale base di partenza per ogni indagine filosofica praticabile in maniera “rigorosa”, secondo la prospettiva fenomenologica di Husserl. Quest’onda lunga equivale ad una risposta alla provocazione di Hume e a un ritorno a Cartesio (anche se in forme più sofisticate). Un invito, insomma, a non confondere lo sguardo dell’osservatore con la scena osservata, per non perdere di vista nessuno dei due, osservatore e osservato, soggetto e oggetto, ma soprattutto un invito a non fare del “soggetto osservatore” una “cosa”, in quando lo “sguardo” sul mondo che noi siamo non è un “oggetto” tra gli altri, per cui non va “sostanzializzato”, sarebbe un errore farlo (in ciò Kant e Husserl sono d’accordo e correggono l’idea di res cogitans di Cartesio, pur ritornando, in qualche modo, a Cartesio). Per cui, viene a cadere con questo la critica stessa fatta da Hume all’io inteso come cosa, come sostanza. Ma se torniamo alla questione dell’identità, il recupero della centralità dello sguardo osservatore non migliora di molto la situazione, per via della sua insostanziale, immateriale disincarnazione. Mi fermo qui, interrompendo un discorso, che seppure incompleto ci permette intanto di evidenziare quanto segue:
- Nella storia della filosofia occidentale i concetti di “identità” e di “sostanza” appaiono spesso strettamente intrecciati tra loro. È inevitabile allora che il processo di desostanzializzazione ancora in atto (dell’io, del mondo, di tutto; insomma, la questione del virtuale) trascini con sé le due cose. Ne emerge un elogio della mutevolezza delle cose e del mutamento (Eraclito), che lascia tuttavia aperta la questione di ciò che permane nel mutamento (Aristotele).
- Il recupero dell’identità come sguardo disincarnato (mente, anima, coscienza, psiche) spesso inciampa sulla questione della corporeità, non tenuta sempre in dovuto conto. Le strategie di risposta elaborate oscillano tra un monismo spesso riduzionista (riduzione della psiche a materia, o di tutto ciò che è materiale al mentale) e il dualismo, rischiando una rimozione completa del problema.
- Altro modo di declinare la questione dell’identità è quello che si richiama al rapporto Uno-Molti, che mi limito qui ad accennare. È meglio parlare di identità al singolare o al plurale? Le cose non vanno diversamente se decliniamo la questione in chiave collettiva, parlando di identità nazionale, europea o altro, questione resa ancora più complessa nello scenario omologante della globalizzazione. Anche qui ritroviamo le stesse tendenze viste sopra. Si pensi, per esempio, all’ambiguità di fondo presente nell’idea di nazione elaborata tra il ‘700 e l’ ‘800. Per Herder, la nazione è una sostanza definibile a priori, in chiave genetica, un fatto naturale e organicistico che fonde in sé diversi individui in nome di un comune senso di appartenenza. Per Rousseau, invece, tale senso comune di appartenenza (il popolo, la nazione intesa come Moi commun) è un’ideale tutto da costruire, su basi democratico-consensuali, frutto di un «plebiscito quotidiano» (E. Renan). Insomma, la nazione è una sostanza a priori di cui non resta che prendere coscienza (Herder) o una costruzione a posteriori humianamente basata sull’abitudine consolidata di una comune esperienza condivisa (Rousseau)? Allo stesso modo è possibile osservare come spesso nella declinazione filosofica dell’identità in chiave collettiva si passa da una prima persona (l’Io) ad una terza persona spesso impersonale (lo Spirito oggettivo, direbbe Hegel), che tende a riprodurre le stesse dinamiche che abbiamo visto a proposito dell’Io come sguardo disincarnato sul/nel mondo.
Qual è allora la mia proposta? Io direi, innanzitutto di distinguere tra identità e identificazione. Per cui preferirei parlare dell’ossessione dell’identitarismo, piuttosto che dell’ossessione dell’identità, come fa Remotti. Condivido pertanto le sue considerazioni critiche sulla retorica dei discorsi ideologici sull’identità, centrati sul bisogno-problema dell’identificazione “a tutti i costi”, sulla fissazione di un modello unico di noi stessi, degli altri, del mondo. Ma preferisco parlare di identitarismo. Per me, l’identità è un’altra cosa. In tal senso, l’identitarismo esprimerebbe un aspetto patologico dei processi base dell’identità (l’identità come processo aperto, non come sostanza chiusa e definita a priori), a descrivere i quali varrebbero mirabilmente le pagine del Ritratto di Dorian Gray di O. Wilde.
Ma a voler considerare l’identità come enticità, l’identità come relazione primaria di noi stessi con noi stessi (il Sé) prima che con gli altri, gettata nella progettualità aperta del nostro Esserci (Heidegger), non penso che bastino da sole le considerazioni di Hume. Il problema vero consiste nell’allargare i nostri campi di osservazione, mentre Hume si limita alla sensorialità ordinaria dei cinque sensi, la cui apparente “naturalità” può nascondere molta più convenzionalità” di quanto sembri a prima vista (in tal senso, l’approccio fenomenologico di Husserl propone di mettere tra parentesi l’ovvietà dell’ “atteggiamento naturale”, per ritrovare quella rinnovata freschezza originaria di uno sguardo primario su noi stessi e sulle cose).
L’«Io non è padrone a casa sua», sostiene Freud, inserendo la questione del Sé nelle complesse dinamiche dei rapporti psichici conscio-inconscio. Da qui discende per forza che l’Io è soltanto un «poema senza autore», come dice Hofstadter? Sebbene ciò sia talvolta vero, e dobbiamo tenerne conto, ritengo si debba considerare una situazione più complessa in cui assumiamo diversi ruoli in relazione a noi stessi e agli altri, ora come autori o registi, ora come protagonisti o come osservatori esterni in qualità di testimoni (talvolta queste posizioni accadono anche simultaneamente). In altre parole, sostenere che «l’Io non è padrone» significa sì assumere un atteggiamento prudente e ironico nei confronti dell’autoralità delle nostre azioni, ma non per forza dobbiamo rinunciarvi del tutto. Anziché un problema dovremmo abituarci a considerare ciò come una risorsa. Solo una crisi di nervi ci porta a cedere ad eccessive semplificazioni. La possibilità di queste diverse posizioni e metaposizioni di noi stessi in relazione a noi stessi e agli altri mostra la centralità delle relazioni intra- e inter-personali con gli altri, nelle quali nasce, si genera e trasmuta continuamente l’identità, il volto delle cose, segnate dalla propria storia e gravido di possibilità ancora inespresse. La prospettiva giusta è quindi quella dell’interpersonalità (ma anche dell’intrapersonalità), di cui anche le neuroscienze o le tecniche della PNL (programmazione neurolinguistica) tengono conto.
Riconsideriamo allora la questione della relazione che ogni identità intrattiene con ogni altra identità. Al termine del suo scritto, Remotti ci propone l’immagine della rete. Il nodo non c’è prima della rete. Il collocarsi del nodo-identità è dato solo in virtù del suo essere punto di intersezione della rete. Ma non sono d’accordo nel considerare ogni nodo come un centro vuoto (così come sostiene Remotti), altrimenti la rete darebbe come prodotto finale zero, un omologante indifferenziazione uno-totalitaria, proprio come avviene negli attuali processi di globalizzazione in atto. Certo il nodo non c’è prima o a prescindere dalla rete, né è qualcosa di chiuso e definito una volta per sempre (sostanza a priori). Ma il nodo è pieno, non è vuoto. O meglio può sembrare vuoto solo perché sta sempre nascendo, è apertura originaria di possibili possibilità di infinite infinità. Remotti parla di «persona dividuale»: la divisibilità della persona dovrebbe essere posta a garanzia della sua apertura relazionale, al posto di una sua (presunta) univoca chiusura sostanziale. Ma se ogni nodo della rete vale zero, vi è il rischio che l’unica identità anonima che resta sia quella rete, e l’immagine dell’indivisibile rete indifferenziata è proprio l’esito di ogni relazionismo filosofico che muove da tali premesse come anche del pensiero a senso unico della globalizzazione.
Affinché si giunga a considerare il nodo dell’identità aperto nella sua relazionalità, senza con ciò rinunciare alla sua enticità (ossia il suo non essere nulla), è quindi opportuno riconsiderare il carattere autorale di ogni centro da cui irradia ogni forma di vita. Questo significa vedere l’identità come possibilità del costituirsi di centri “autoriali” (per rispondere alla citazione finale che si richiama a Hofstadter). Si tratta di un’autoralità che s’accresce di sé (nel significato pregnante del verbo latino augeo, che indica l’idea di un crescere continuo), accrescendo di continuo anche quel poema cosmico attraverso cui prende corpo e tempo-narrazione l’esistente. Occorre quindi che in ogni parte dell’essere, ogni parte dell’essere (sia essa persona o gruppo, popolo-nazione o continente, creatura naturale anche non umana) coltivi una relazione intima con se stessa prima che con altro o altri, e in questa intima relazione scopri in chiave generativa la possibilità sempre aperta e vitale della propria identità come processo dinamico intra- e inter-personale.