Con questo nuovo post (troppo lungo per entrare nello spazio dei commenti) faccio qualche considerazione in seguito alle stimolanti questioni poste da F. Mogavero, R. Pierro e V. Bisogno a commento della lectio magistralis di D'Onofrio- Tomatis.
Non conoscevo nulla di Gasking, né del libro di Dawkins in cui viene citato, prima che ne parlassi tu, Francesco M. Per tutti quelli che ci seguono, alcune indicazioni per saperne di più sull’argomento. Da una prima indagine ecco cosa ho trovato in rete:
innanzitutto il libro di R. Dawkins, L’illusione di Dio, che è possibile scaricare all’indirizzo:
http://www.amnesy.it/Downloads/Grafica/Dawkins%20R-L'Illusione%20di%20dio.pdf
interessante anche la disamina dell’argomento di Gasking con alcune osservazioni critiche del medesimo che ho trovato su questo blog (in inglese) all’indirizzo:
http://sloanlee.blogspot.it/2013/01/gaskings-proof-for-non-existence-of-god.html
Infine, un’intera tesi di laurea dedicata ai meccanismi mentali della credenza a partire da Hume fino alle neuroscienze di Fabiola Massimi pubblicata nel sito della UAAR (Unione Atei Agnotistici Razionalisti)
http://www.uaar.it/sites/default/files/webfm/all/premiolaurea/tesi2015/massimi-morali-per-natura.pdf
Per ora mi fermo qui. Faccio presente che con questi siti ho voluto indicare solo ciò che mi pare muoversi grossomodo sulla falsariga di Dawkins.
Venendo adesso alle questioni che avete posto, la domanda di fondo potrebbe essere: ha senso un’argomentazione logica per cercare di dimostrare l’esistenza o l’inesistenza di Dio?
Consideriamo sia Kant che Nietzsche. Entrambi hanno confutato gli argomenti logici e, più in generale, un certo tipo di razionalità a sostegno dell’esistenza di Dio, ma non hanno potuto, né intendevano, dimostrarne tuttavia l’inesistenza.
Piuttosto possiamo avere delle buone (e delle cattive) ragioni per ritenere possibile che Dio esista quanto che non esista. La questione si direbbe destinata a rimanere sospesa e indecisa in perfetta parità dialettica. Basta questo a far dire a Kant che forse la questione non potrà mai essere decisa sul piano dialettico, perché parlando di Dio l’umana razionalità dialettica (quella per la quale abbiamo sempre delle ragioni per sostenere la tesi A quante per sostenere la tesi opposta non-A) è come se tentasse di giocare una partita finale che si conclude sempre con un nulla di fatto, uno 0-0.
La dialettica nasce come singolar tenzone tra due tesi avversarie, una specie di duello all’ultimo sangue: al centro della scena sono rimasti solo due avversarsi; questione di vita o morte: o vince l’uno o vince l’altro; la vittoria dell’uno è la scomparsa dell’altro; non possono vincere entrambi, così come non possono perdere entrambi; si tratta di un’alternativa secca, aut/aut (Dio esiste o non esiste, tertium non datur, una terza possibilità non si dà). Ragion per cui, se uno dei due, per assurdo, si ritira dalla scena, l’altro vince senza neanche dover combattere per eliminarlo (reductio ad absurdum), vince per semplice sottrazione dell’antagonista (un po’ come è successo nell’antagonismo bipolare USA-URSS durante la guerra fredda, un conflitto che termina non perché gli USA vincono sull’URSS, ma perché l’URSS scompare ad un certo punto dalla scena).
In un breve, ma denso, libretto intitolato: La nascita della filosofia, G.Colli descrive come dagli abissi profondi della mentalità mitico-mistico-religiosa della Grecia arcaica sorge ad un certo punto una nuova forma di pensiero umano, la razionalità, precisamente la dialettica, che sarà all’origine della filosofia stessa. Ma cosa diventa nel corso del tempo la dialettica filosofica? Diventa una forma di violenza ritualizzata che sposta il carattere (auto)distruttivo dell’aggressività umana dal piano fisico a quello mentale e verbale. Vince chi col suo discorso riesce a distruggere il discorso dell’altro. Ma perché ciò avvenga occorre chiudersi nel ring a due, dove delle due l’una: o vince una tesi (che quindi ha diritto ad esistere) o vince l’altra (la tesi sconfitta non ha neanche diritto all’esistenza). Basterebbe quindi considerare sempre una terza possibilità per destrutturare questo meccanismo dialettico del pensiero che porta con sé tutta una carica di violenza fisica e metafisica.
Anche la matematica, per lungo tempo, ha considerato la dimostrazione per assurdo come un valido strumento per stabilire la validità di un teorema. Si tratta di dimostrare un teorema mediante la distruzione di un ipotetico teorema opposto che lo nega. Come dire: delle due o l’una o l’altra: il teorema è vero o falso (tertium non datur), per cui, se è falsa la sua negazione allora è vero. È tuttavia esistono oggi delle matematiche intuizionistiche (Brouwer) che intendono la matematica come un’opera continua di costruzione di possibilità, per cui possiamo mostrare la validità un teorema perché costruiamo la matematica che lo rende possibile; ma se non riusciamo a farlo oggi non significa che non sarà mai possibile in futuro, significa solo che non ci siamo ancora riusciti, almeno finora, per cui si dà sempre una terza possibilità, non si può dire per sempre che un teorema è vero o falso, dimostrato o non dimostrato, ma solo che questa è la matematica che abbiamo finora scoperto inventando. Come dire: tra i due litiganti (esiste/non esiste) domani (forse) un terzo ne godrà. Chissà, magari è un altro modo per dire che le vie del signore sono infinite! In matematica almeno non possiamo essere perentori nel dimostrare l’impossibilità di un teorema matematico, tantomeno per assurdo. Non si può dimostrare, in linea di principio, l’inesistenza di alcunché, tantomeno di Dio, ammesso che sia qualcosa di paragonabile ad un teorema matematico.
Non si può dimostrare per via logica né l’esistenza né l’inesistenza di Dio, eppure Kant si chiede cosa pensiamo davvero quando diciamo di pensare Dio (vale la pensa leggere in proposito tutta la parte della Dialettica trascendentale, nella quale Dio viene definito come ideale della Ragione, così come Tomatis ricordava nella sua lectio magistralis).
Quanto a Nietzsche, l’affermazione in cui dice: “Dio è morto” non equivale ad una dimostrazione dell’inesistenza di Dio, ma ad una presa di coscienza da parte sua. Nietzsche ritiene si sia ormai compiuto, suo malgrado, un passaggio epocale, per cui tramonto l’idolo di tutti gli idoli finora escogitati dalla mente umana, la fine di tutte le certezze assolute, una fine che trascina con sé non solo la religione, ma anche le ideologie politiche, i valori umani di ogni sorta e persino il mito della certezza oggettiva del progresso scientifico. Tramonta così il Dio ente di ragione che ha attraversato per millenni il corso del pensiero occidentale, la credenza cioè che vi sia un superordine razionale scontato e già dato a priori, la ragion d’essere di tutto ciò che esiste.
Idolo di idoli dalle molteplici maschere, il Dio che è morto di cui parla Nietzsche esprime una critica sincera rivolta ad una certa immagine di Dio, dunque è una critica dell’idolatria. Voglio con questo dire che Nietzsche pensava ad una nuova forma di religione al di là dell’idolatria cui sfugge il vero volto di Dio? Lo spazio vuoto lasciato dalla sua critica resta indeciso e ambiguo. Ma non stupisce che ad alcuni spiriti religiosi Nietzsche possa piacere proprio per questo. Mi fermo qui, per ora, perché la questione andrebbe approfondita.
Ha dunque senso un’argomentazione logica per cercare di dimostrare l’esistenza o l’inesistenza di Dio? Ma poi cos’è una dimostrazione logica? E aggiungerei: che qualcosa esista è una questione di logica? Cosa significa “esistere”? L’esistenza va provata? In che senso si “prova l’esistenza” di qualcosa? E poi: Dio è una “cosa”? È davvero possibile pensare Dio? Possiamo catturarlo nelle reti di pensiero, nei concatenamenti di un’argomentazione logica?
L’intreccio delle questioni che ho appena sollevato è piuttosto complesso da trattare in un breve intervento e ci porterebbe molto lontano dal nostro argomento, anche se resteremmo in tema. Basti questo a mostrare quanto l’argomento ontologico di Anselmo attraversi (e “spacchi in due” — come ricordava il prof. Baldi) l’intera tradizione del pensiero filosofico occidentale.
Piuttosto, cosa significa (e cosa succede) quando pensiamo (o diciamo di pensare) Dio? Trovo che sia questo il punto più interessante dell’approccio alla questione tentato da Anselmo, è qui la questione specificamente filosofica da lui posta, al di là della questione se crediamo o no che Dio esista.
Tornando infatti ad Anselmo, egli non fa mistero alcuno (quindi nessuna malizia) del fatto che prima ancora di argomentare su Dio egli già crede nella sua esistenza («Non cerco infatti si intendere per poter credere, ma credo per poter intendere. In verità credo in questo: “se non avrò creduto, non potrò intendere”», Proslogion, cap.I). Ma forse, più che di esistenza di Dio, dovremmo dire che Anselmo “crede di sperimentarne la presenza” e a partire da ciò intende farne un resoconto razionale, rendicontazione linguistica del sapore di un sapere, della fragranza sfuggente di un’esperienza ai limiti del descrivibile (quo maius cogitari possit), rendicontazione di un’esperienza pregressa (la razionalità ha a che fare con un redde rationem a posteriori). Di che esperienza si tratta? Mistica? Logica? Logico-mistica? L’“argomento unico” di Anselmo prova a registrare la forma logica generale di un evento che si è già consumato al passaggio, è la forma logica che assume a posteriori un’esperienza ardentemente desiderata (vedi la preghiera iniziale del Proemio).
Si riesce in questa impresa? Se non fosse che nel trascrivere le tracce al passaggio di Dio nelle stanze della mente, «appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire» (Dante, Par., I, vv-7-9). Per cui quello che ne resta è simile all’esperienza di un rapido passaggio, come se una luce accecante e intensissima, quale lingua di fuoco che strappa e brucia le reti del pensiero con le quali cercavamo di catturarla, lascia solo un buco (aliquid quo nihil/qualcosa di cui nulla), un buco che occupa però tutto lo spazio della mente (maius cogitari/ pensare qualcosa di più grande), qualcosa che non sai neanche se per davvero, al termine dell’esperienza, siamo riusciti a pensare o a non pensare affatto, perché nella formula linguistica di Anselmo, per esprimere il concetto di Dio, il pensiero umano oscilla tra possit/nequit, si può/non si può pensare questo “qualcosa” (aliquid) inteso come Dio, dove la possibilità stessa di pensare questa presenza dilagante viene espressa al congiuntivo (possit), ossia nell’incerto modo verbale della possibilità, anche se al tempo stesso resta quell’impossibilità del pensiero ribadita nella modalità verbale dell’indicativo (nequit):
cap.II : «Et quidem credimus te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit (“E in effetti, crediamo che tu sia ciò di cui nulla di più grande si possa pensare”);
cap.XV: «Ergo domine non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius cogitari possit» (“Quindi Signore non solo tu sei ciò di cui di più grande non si può pensare, ma sei anche un qualcosa che è più grande di (qualsiasi) cosa che si possa pensare”).
In conclusione, si direbbe che la filosofia e l’uomo, sospese tra questioni di esistenza e inesistenza (di Dio e non solo) si siano da sempre cimentate con l’esperienza e il pensiero di una ricerca di qualcosa che scopriamo che a sua volta ci cerca e vuol esser cercato. Lo chiameremo “Dio” questo paradosso del cercare ciò che cerca noi per essere nominato? Direi di concentrarci, per restare in tema, sui termini con cui Anselmo ha posto la questione. Cosa intende con quel maius che trabocca al punto di avvertirne la presenza dentro-fuori di noi? Inutile dire che Anselmo non allude a qualcosa che possa essere inteso in termini di grandezza fisica. Dio non è una grandezza fisica, altrimenti sarebbe troppo facile deciderne e circoscriverne l’esistenza dentro/fuori un determinato contesto. E poi perché questo capogiro logico di affermazioni attraverso negazioni, perché affermare un “qualcosa” (aliquid) affermando-negando (nihil/nulla), e poi quel maius (più grande) che rinvia ad un “quo” (l’ablativo assoluto, il più sfuggente e polimorfo dei casi di funzione logica nella lingua latina) che tende a creare delle comparazioni i cui termini di confronto restano assenti-presenti (aliquid quo nihil/qualcosa di cui nulla)?
Mettiamoci allora nelle condizioni di esperienza indicate da Anselmo, entriamo anche noi nella camera più recondita e segreta della mente («intra in cubiculum mentis tuae»), escludendo da essa tutto, all’infuori di in un “unicum argumentum” (è su questa formula più che sulla parola “Dio”, che direi di soffermarsi). Esperienza che accade quando cercando dentro/fuori di noi, giungiamo a sentire tutto dentro-fuori, come quando un vasto mare, in cui aneliamo immergerci, d’improvviso dilaga e ci sommerge, al punto tale che non siamo noi a voler entrare in esso, più di quanto non vi siamo noi stessi già dentro. Anselmo lo chiama Dio, ma forse, provandone l’esperienza, possiamo decidere anche di chiamarlo con un altro nome. Un nome altro. Chissà allora se non ci sorprenderemo anche noi a parlarne affermando-negando qualcosa ai limiti (e dei limiti) del pensiero e dell’esperienza…
Non conoscevo nulla di Gasking, né del libro di Dawkins in cui viene citato, prima che ne parlassi tu, Francesco M. Per tutti quelli che ci seguono, alcune indicazioni per saperne di più sull’argomento. Da una prima indagine ecco cosa ho trovato in rete:
innanzitutto il libro di R. Dawkins, L’illusione di Dio, che è possibile scaricare all’indirizzo:
http://www.amnesy.it/Downloads/Grafica/Dawkins%20R-L'Illusione%20di%20dio.pdf
interessante anche la disamina dell’argomento di Gasking con alcune osservazioni critiche del medesimo che ho trovato su questo blog (in inglese) all’indirizzo:
http://sloanlee.blogspot.it/2013/01/gaskings-proof-for-non-existence-of-god.html
Infine, un’intera tesi di laurea dedicata ai meccanismi mentali della credenza a partire da Hume fino alle neuroscienze di Fabiola Massimi pubblicata nel sito della UAAR (Unione Atei Agnotistici Razionalisti)
http://www.uaar.it/sites/default/files/webfm/all/premiolaurea/tesi2015/massimi-morali-per-natura.pdf
Per ora mi fermo qui. Faccio presente che con questi siti ho voluto indicare solo ciò che mi pare muoversi grossomodo sulla falsariga di Dawkins.
Venendo adesso alle questioni che avete posto, la domanda di fondo potrebbe essere: ha senso un’argomentazione logica per cercare di dimostrare l’esistenza o l’inesistenza di Dio?
Consideriamo sia Kant che Nietzsche. Entrambi hanno confutato gli argomenti logici e, più in generale, un certo tipo di razionalità a sostegno dell’esistenza di Dio, ma non hanno potuto, né intendevano, dimostrarne tuttavia l’inesistenza.
Piuttosto possiamo avere delle buone (e delle cattive) ragioni per ritenere possibile che Dio esista quanto che non esista. La questione si direbbe destinata a rimanere sospesa e indecisa in perfetta parità dialettica. Basta questo a far dire a Kant che forse la questione non potrà mai essere decisa sul piano dialettico, perché parlando di Dio l’umana razionalità dialettica (quella per la quale abbiamo sempre delle ragioni per sostenere la tesi A quante per sostenere la tesi opposta non-A) è come se tentasse di giocare una partita finale che si conclude sempre con un nulla di fatto, uno 0-0.
La dialettica nasce come singolar tenzone tra due tesi avversarie, una specie di duello all’ultimo sangue: al centro della scena sono rimasti solo due avversarsi; questione di vita o morte: o vince l’uno o vince l’altro; la vittoria dell’uno è la scomparsa dell’altro; non possono vincere entrambi, così come non possono perdere entrambi; si tratta di un’alternativa secca, aut/aut (Dio esiste o non esiste, tertium non datur, una terza possibilità non si dà). Ragion per cui, se uno dei due, per assurdo, si ritira dalla scena, l’altro vince senza neanche dover combattere per eliminarlo (reductio ad absurdum), vince per semplice sottrazione dell’antagonista (un po’ come è successo nell’antagonismo bipolare USA-URSS durante la guerra fredda, un conflitto che termina non perché gli USA vincono sull’URSS, ma perché l’URSS scompare ad un certo punto dalla scena).
In un breve, ma denso, libretto intitolato: La nascita della filosofia, G.Colli descrive come dagli abissi profondi della mentalità mitico-mistico-religiosa della Grecia arcaica sorge ad un certo punto una nuova forma di pensiero umano, la razionalità, precisamente la dialettica, che sarà all’origine della filosofia stessa. Ma cosa diventa nel corso del tempo la dialettica filosofica? Diventa una forma di violenza ritualizzata che sposta il carattere (auto)distruttivo dell’aggressività umana dal piano fisico a quello mentale e verbale. Vince chi col suo discorso riesce a distruggere il discorso dell’altro. Ma perché ciò avvenga occorre chiudersi nel ring a due, dove delle due l’una: o vince una tesi (che quindi ha diritto ad esistere) o vince l’altra (la tesi sconfitta non ha neanche diritto all’esistenza). Basterebbe quindi considerare sempre una terza possibilità per destrutturare questo meccanismo dialettico del pensiero che porta con sé tutta una carica di violenza fisica e metafisica.
Anche la matematica, per lungo tempo, ha considerato la dimostrazione per assurdo come un valido strumento per stabilire la validità di un teorema. Si tratta di dimostrare un teorema mediante la distruzione di un ipotetico teorema opposto che lo nega. Come dire: delle due o l’una o l’altra: il teorema è vero o falso (tertium non datur), per cui, se è falsa la sua negazione allora è vero. È tuttavia esistono oggi delle matematiche intuizionistiche (Brouwer) che intendono la matematica come un’opera continua di costruzione di possibilità, per cui possiamo mostrare la validità un teorema perché costruiamo la matematica che lo rende possibile; ma se non riusciamo a farlo oggi non significa che non sarà mai possibile in futuro, significa solo che non ci siamo ancora riusciti, almeno finora, per cui si dà sempre una terza possibilità, non si può dire per sempre che un teorema è vero o falso, dimostrato o non dimostrato, ma solo che questa è la matematica che abbiamo finora scoperto inventando. Come dire: tra i due litiganti (esiste/non esiste) domani (forse) un terzo ne godrà. Chissà, magari è un altro modo per dire che le vie del signore sono infinite! In matematica almeno non possiamo essere perentori nel dimostrare l’impossibilità di un teorema matematico, tantomeno per assurdo. Non si può dimostrare, in linea di principio, l’inesistenza di alcunché, tantomeno di Dio, ammesso che sia qualcosa di paragonabile ad un teorema matematico.
Non si può dimostrare per via logica né l’esistenza né l’inesistenza di Dio, eppure Kant si chiede cosa pensiamo davvero quando diciamo di pensare Dio (vale la pensa leggere in proposito tutta la parte della Dialettica trascendentale, nella quale Dio viene definito come ideale della Ragione, così come Tomatis ricordava nella sua lectio magistralis).
Quanto a Nietzsche, l’affermazione in cui dice: “Dio è morto” non equivale ad una dimostrazione dell’inesistenza di Dio, ma ad una presa di coscienza da parte sua. Nietzsche ritiene si sia ormai compiuto, suo malgrado, un passaggio epocale, per cui tramonto l’idolo di tutti gli idoli finora escogitati dalla mente umana, la fine di tutte le certezze assolute, una fine che trascina con sé non solo la religione, ma anche le ideologie politiche, i valori umani di ogni sorta e persino il mito della certezza oggettiva del progresso scientifico. Tramonta così il Dio ente di ragione che ha attraversato per millenni il corso del pensiero occidentale, la credenza cioè che vi sia un superordine razionale scontato e già dato a priori, la ragion d’essere di tutto ciò che esiste.
Idolo di idoli dalle molteplici maschere, il Dio che è morto di cui parla Nietzsche esprime una critica sincera rivolta ad una certa immagine di Dio, dunque è una critica dell’idolatria. Voglio con questo dire che Nietzsche pensava ad una nuova forma di religione al di là dell’idolatria cui sfugge il vero volto di Dio? Lo spazio vuoto lasciato dalla sua critica resta indeciso e ambiguo. Ma non stupisce che ad alcuni spiriti religiosi Nietzsche possa piacere proprio per questo. Mi fermo qui, per ora, perché la questione andrebbe approfondita.
Ha dunque senso un’argomentazione logica per cercare di dimostrare l’esistenza o l’inesistenza di Dio? Ma poi cos’è una dimostrazione logica? E aggiungerei: che qualcosa esista è una questione di logica? Cosa significa “esistere”? L’esistenza va provata? In che senso si “prova l’esistenza” di qualcosa? E poi: Dio è una “cosa”? È davvero possibile pensare Dio? Possiamo catturarlo nelle reti di pensiero, nei concatenamenti di un’argomentazione logica?
L’intreccio delle questioni che ho appena sollevato è piuttosto complesso da trattare in un breve intervento e ci porterebbe molto lontano dal nostro argomento, anche se resteremmo in tema. Basti questo a mostrare quanto l’argomento ontologico di Anselmo attraversi (e “spacchi in due” — come ricordava il prof. Baldi) l’intera tradizione del pensiero filosofico occidentale.
Piuttosto, cosa significa (e cosa succede) quando pensiamo (o diciamo di pensare) Dio? Trovo che sia questo il punto più interessante dell’approccio alla questione tentato da Anselmo, è qui la questione specificamente filosofica da lui posta, al di là della questione se crediamo o no che Dio esista.
Tornando infatti ad Anselmo, egli non fa mistero alcuno (quindi nessuna malizia) del fatto che prima ancora di argomentare su Dio egli già crede nella sua esistenza («Non cerco infatti si intendere per poter credere, ma credo per poter intendere. In verità credo in questo: “se non avrò creduto, non potrò intendere”», Proslogion, cap.I). Ma forse, più che di esistenza di Dio, dovremmo dire che Anselmo “crede di sperimentarne la presenza” e a partire da ciò intende farne un resoconto razionale, rendicontazione linguistica del sapore di un sapere, della fragranza sfuggente di un’esperienza ai limiti del descrivibile (quo maius cogitari possit), rendicontazione di un’esperienza pregressa (la razionalità ha a che fare con un redde rationem a posteriori). Di che esperienza si tratta? Mistica? Logica? Logico-mistica? L’“argomento unico” di Anselmo prova a registrare la forma logica generale di un evento che si è già consumato al passaggio, è la forma logica che assume a posteriori un’esperienza ardentemente desiderata (vedi la preghiera iniziale del Proemio).
Si riesce in questa impresa? Se non fosse che nel trascrivere le tracce al passaggio di Dio nelle stanze della mente, «appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire» (Dante, Par., I, vv-7-9). Per cui quello che ne resta è simile all’esperienza di un rapido passaggio, come se una luce accecante e intensissima, quale lingua di fuoco che strappa e brucia le reti del pensiero con le quali cercavamo di catturarla, lascia solo un buco (aliquid quo nihil/qualcosa di cui nulla), un buco che occupa però tutto lo spazio della mente (maius cogitari/ pensare qualcosa di più grande), qualcosa che non sai neanche se per davvero, al termine dell’esperienza, siamo riusciti a pensare o a non pensare affatto, perché nella formula linguistica di Anselmo, per esprimere il concetto di Dio, il pensiero umano oscilla tra possit/nequit, si può/non si può pensare questo “qualcosa” (aliquid) inteso come Dio, dove la possibilità stessa di pensare questa presenza dilagante viene espressa al congiuntivo (possit), ossia nell’incerto modo verbale della possibilità, anche se al tempo stesso resta quell’impossibilità del pensiero ribadita nella modalità verbale dell’indicativo (nequit):
cap.II : «Et quidem credimus te esse aliquid quo nihil maius cogitari possit (“E in effetti, crediamo che tu sia ciò di cui nulla di più grande si possa pensare”);
cap.XV: «Ergo domine non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius cogitari possit» (“Quindi Signore non solo tu sei ciò di cui di più grande non si può pensare, ma sei anche un qualcosa che è più grande di (qualsiasi) cosa che si possa pensare”).
In conclusione, si direbbe che la filosofia e l’uomo, sospese tra questioni di esistenza e inesistenza (di Dio e non solo) si siano da sempre cimentate con l’esperienza e il pensiero di una ricerca di qualcosa che scopriamo che a sua volta ci cerca e vuol esser cercato. Lo chiameremo “Dio” questo paradosso del cercare ciò che cerca noi per essere nominato? Direi di concentrarci, per restare in tema, sui termini con cui Anselmo ha posto la questione. Cosa intende con quel maius che trabocca al punto di avvertirne la presenza dentro-fuori di noi? Inutile dire che Anselmo non allude a qualcosa che possa essere inteso in termini di grandezza fisica. Dio non è una grandezza fisica, altrimenti sarebbe troppo facile deciderne e circoscriverne l’esistenza dentro/fuori un determinato contesto. E poi perché questo capogiro logico di affermazioni attraverso negazioni, perché affermare un “qualcosa” (aliquid) affermando-negando (nihil/nulla), e poi quel maius (più grande) che rinvia ad un “quo” (l’ablativo assoluto, il più sfuggente e polimorfo dei casi di funzione logica nella lingua latina) che tende a creare delle comparazioni i cui termini di confronto restano assenti-presenti (aliquid quo nihil/qualcosa di cui nulla)?
Mettiamoci allora nelle condizioni di esperienza indicate da Anselmo, entriamo anche noi nella camera più recondita e segreta della mente («intra in cubiculum mentis tuae»), escludendo da essa tutto, all’infuori di in un “unicum argumentum” (è su questa formula più che sulla parola “Dio”, che direi di soffermarsi). Esperienza che accade quando cercando dentro/fuori di noi, giungiamo a sentire tutto dentro-fuori, come quando un vasto mare, in cui aneliamo immergerci, d’improvviso dilaga e ci sommerge, al punto tale che non siamo noi a voler entrare in esso, più di quanto non vi siamo noi stessi già dentro. Anselmo lo chiama Dio, ma forse, provandone l’esperienza, possiamo decidere anche di chiamarlo con un altro nome. Un nome altro. Chissà allora se non ci sorprenderemo anche noi a parlarne affermando-negando qualcosa ai limiti (e dei limiti) del pensiero e dell’esperienza…